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“Il fiore perfetto è una cosa rara. Se si trascorresse la vita a cercarne uno, non sarebbe una vita sprecata” (Katsumoto)
Né jedi, né mohicano. Forse più una sorta di Jigen spartano con le sembianze di Goemon. Mi riferisco al protagonista del film “ L’ultimo samurai”, Nathan Algren (Tom Cruise). Ex capitano dell’esercito americano e veterano del 7° Reggimento di cavalleria, nella seconda metà del XIX secolo, accetta l’incarico di addestrare le forze armate dell’imperatore Meiji con lo scopo di disfarsi dei samurai dissidenti presenti in zona.
La dura verità delle circostanze o meglio l’obiettivo è sopprimere la ribellione dell’ennesimo capo tribù, servendosi di un esercito composto per lo più da contadini che non hanno mai impugnato un fucile: insomma insegnare “agli orientali a fare i soldati”. L’armata, però, viene sconfitta e il comandante avversario, Katsumoto (Ken Watanabe), colpito dall’ostinazione di un Nathan cuore impavido, tenace nel non arrendersi, decide di risparmiarlo.
Da nemico a ospite indesiderato ed infine alleato dei ribelli il passo è breve: il veterano rimane affascinato dalla cultura giapponese, da questo “popolo enigmatico”, da questa “curiosa gente” cui è prigioniero perché non può scappare e percepisce sotto la loro cortesia un profondo mare di emozioni. Si sorprende nell’apprendere che il termine samurai voglia dire “servire” oltre che “dedicarsi anima e corpo a una serie di principi morali, cercare il silenzio della mente e giungere alla perfezione delle vie della spada”.
Nathan, inoltre, si innamora di Taka (Koyuki Kato), sorella di Katsumoto e vedova di Hirotaro (assassinato proprio da Algren in battaglia): un sentimento che non necessità d’eccessiva carnalità per emergere. C’è e si vede.
Si giunge alla battaglia decisiva contro l’esercito imperiale, quello in cui le spade non possono competere con le armi da fuoco: sorge l’immediato parallelismo con la battaglia delle Termopoli del 480 a.C. in cui trecento greci riescono a tener testa a un milione di persiani, facendo perdere loro il gusto di combattere prima di essere inevitabilmente sconfitti. Il guerriero “in cui la vecchia via si unisce alla nuova” combatte fianco a fianco a un comandante saggio e poco innamorato della sua stessa leggenda: entrambi si rivelano “guerrieri disposti a dare la vita per quella che sembra ormai una parola dimenticata: onore”.
Ma una ribellione o per lo meno quella cui qui si narra è sempre al servizio dell’imperatore? Candidato a 4 premi Oscar, L’ultimo samurai, film del 2003 diretto da Edward Zwick, si avvale di dialoghi strutturati in “buone conversazioni” atte a mutuarsi in insegnamenti per nulla didascalici. Le musiche di Hans Zimmer e le spettacolari inquadrature si sommano al circostante pot-pourri di elementi antropologici.